Vittorio De Seta: Dai documentari etnografici alle sceneggiature filmiche

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Nel 2016 la Federazione Italiana Tradizioni Popolari ha istituito, con relativa registrazione presso il competente Ministero, la «Rassegna Internazionale “Vittorio De Seta” di Documentari Etnografici» con l’intento di ricordare Vittorio De Seta come uno dei primi inconsapevoli fondatori in Italia dell’Antropologia visuale, come un grande interprete, con i suoi documentari, delle realtà etno-antropologiche meridionali degli anni ’50 del secolo scorso e come un attento cineasta, scomparso nel 2011 e spesso dimenticato dagli ambienti etno-antropologici. Ultimamente una particolare attenzione è stata riservata a De Seta dallo storico del cinema Antioco Floris nel volume pubblicato nel 2019 da Rubbettino (CZ) Banditi a Orgosolo. Il film di Vittorio De Seta.

Nel lavoro, Floris ha la particolare capacità di presentare Vittorio De Seta come uno straordinario regista che, prima di Pasolini, riesce a costruire insieme agli interpreti la sceneggiatura del film che dovrà girare; inoltre, con una felice intuizione antropologica, Floris inserisce De Seta nel filone metodologico di una spontanea malinowskiana «osservazione partecipante», tramite la quale il regista diventa un compaesano di Orgosolo che beve tranquillamente un bicchiere di vino con gli altri incontrati nella bettola. In pratica, Floris specifica subito l’immediato rapporto umano che De Seta realizza con gli orgolesi: «Ci sono poi i rapporti con la comunità che aveva accolto De Seta come uno di casa, non come “un’istranzu” (un estraneo) da guardare con diffidenza. Proprio questa accoglienza ha fatto sì che si potesse creare quel felice scambio interattivo che è stato la linfa del film: Orgosolo si è aperta con disponibilità al regista che arrivava dal continente e lui non ha tradito la fiducia».

Sia quando De Seta gira nel 1958 i due documentari Pastori a Orgosolo e Un giorno in Barbagia, sia quando nel 1959 torna ad Orgosolo per dedicarsi al film, Floris evidenzia molto bene che il regista ha come informazione generale soltanto due fondamentali opere su quella realtà sociale, la nota monografia di Franco Cagnetta, Inchiesta su Orgosolo, apparsa sul n. 10 del 1954 nella rivista «Nuovi Argomenti» e il romanzo autobiografico di Maria Giacobbe, Diario di una maestrina, pubblicato nel 1957 dall’editore Laterza. La partecipazione alla vita di paese completa le informazioni necessarie per costruire il soggetto e la sceneggiatura del film, partendo dalle notizie storiche presenti nella letteratura sociologica, ma soprattutto esaminando attentamente la realtà sociale in cui allora si era immerso. A questo proposito Antioco Floris riporta un brano di uno dei diversi colloqui che ha avuto la fortuna e la capacità di stabilire con De Seta fino a poco tempo prima della scomparsa: «La sceneggiatura – racconta il regista –, se di sceneggiatura si può parlare, l’abbiamo svolta sul posto, con l’aiuto degli interpreti e dei due collaboratori del paese, Mario Battasi, che fa anche l’attore, e Pasquale Marotto». Da qui deriverebbe, secondo Floris, per De Seta l’esigenza di coniugare «il lavoro del documentarista con quello creativo del regista-autore»; in pratica l’obiettivo filmico dovrebbe essere «il carattere costitutivo di un universo» realizzato partendo dal reale, in sostanza, dai documentari etnograficamente girati come prime documentazioni della realtà che, quindi, consentono di disporre dello «spirito dell’etnologo», il quale, però, nella realizzazione del film, deve essere opportunamente superato per arrivare oltre, ovvero giungere all’opera d’arte.

Pertanto, a questo punto Floris propone la sua giusta analisi interpretativa del film: «L’opera, pur fondandosi su un lavoro che utilizza gli strumenti dell’antropologia e della ricerca sul campo, supera la dimensione storica. Il lavoro di ricerca sul campo a questo punto diventa “solo” il robusto materiale per costruire le fondamenta su cui si regge la vicenda, quanto dà a Vittorio De Seta l’autorità e l’autorevolezza per trattare la comunità orgolese con cognizione di causa pur senza per questo costringerlo a rimanere schiavo della formula documentaristica che fino ad allora aveva caratterizzato il suo lavoro. In questo racconto – precisa Floris – la realtà e il mito si sovrappongono come aporie non solo senza escludersi a vicenda, quanto piuttosto rafforzandosi l’un l’altro. Talvolta una componente ha il soppravvento creando un certo fastidio in chi non riconosce la presenza dei due livelli o ne privilegia solo uno». In una messa a fuoco sintetica, ma molto chiara Floris evidenzia quale debba essere l’approccio indispensbile per inquadrare e capire i documentari meridionalistici e il film sul banditismo orgolese: «De Seta ha come obiettivo quello di raccontare l’uomo concreto, e per riuscire a ottenere la rappresentazione di quest’uomo deve lavorare da antropologo, deve studiare l’uomo orgolese, vivere come lui, proiettarsi nel suo mondo. Deve appropriarsene, e solo una volta che se ne è appropriato può fare il passo ulteriore di rappresentarlo come tipo e condurlo in una dimensione astorica». Da qui si coglie che Antioco Floris si propone di inquadrare Vittorio De Seta come realizzatore di un’opera d’arte in Banditi a Orgosolo. Sul piano estetico si tratta di una valutazione sicuramente da condividere. Da un punto di vista antropologico, come è da tempo accettato da numerosi antropologi visuali, il giudizio è particolarmente positivo per tutti i documentari realizzati da De Seta; per quanto riguarda la valutazione del film come opera d’arte si «deve» assolutamente condividere quella di Antioco Floris e degli storici del cinema accreditati scientificamente per tali giudizi. L’opera cinematografica di De Seta in Banditi a Orgosolo, secondo Floris, arriva alla dimensione artistica della tragedia greca.

Il lavoro di Antioco Floris su Banditi a Orgosolo fornisce un importante ed interessante spaccato del rapporto del regista con Ogosolo e la Sardegna; è anche un volume nel quale sono raccolti diversi documenti inediti di De Seta; in sostanza vengono pubblicati e commentati numerosi documenti dell’archivio De Seta che Floris ha avuto il privilegio di consultare grazie al fatto di aver instaurato, come si è già accennato, una personale amicizia con il regista. Per concludere, quindi, a questo punto, a nome della Federazione Italiana Tradizioni Popolari e anche a nome degli antropologi che tentano di far riconoscere l’Antropologia visuale nell’ordinamento universitario italiano, mi preme fare i complimenti ad Antioco Floris per aver realizzato un’opera nella quale Vittorio De Seta risulta giustamente inquadrato sia come documentarista etnografico, sia come regista cinematografico.