Uno sguardo d'insieme. Percorsi demologici

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«I temi della vita ora ti pare quasi di poterli ascoltare, come in una partitura musicale. Gli incontri decisivi, le amicizie, gli amori, sono le frasi e i motivi che si enunciano e rispondono nel segreto contrappunto dell’esistenza, che non ha pentagrammi su cui annotarli. E anche quando sembrano situati in un passato remoto, i temi della vita sono necessariamente incompiuti, come una melodia o una fuga interrotta che aspetta di essere continuata e ripresa. Provare ad ascoltarli – al buio. Nient’altro. È come quando guardi qualcosa al crepuscolo. Non è tanto che la luce sia incerta, ma che sai che non potrai finire di vedere, perché la luce viene meno. Così appaiono ora cose e persone fissate per sempre nel non potere finire di vederle. Sub quadam caducitatis specie. E questo solo è eterno». Così Giorgio Agamben nel suo bell’Autoritratto nello studio (Nottetempo, Milano 2017).

Poco prima aveva scritto: «”Il cielo scricchiola perché non c’è in esso un centimetro che non sia occupato da un angelo”. Mentre ci sembra che tutte le nostre facoltà diminuiscano e scemino, l’immaginazione cresce a dismisura, occupa ogni possibile spazio. E non è più qualcosa di distinto dalla realtà. Anzi, la realtà si frantuma in immagini, che l’immaginazione non fa che raccogliere. Desideri così compiutamente immaginati che non possono essere soddisfatti. Stupore che la speranza rimanga intatta, anche se sa con certezza che non sarà esaudita, che solo l’inesaudibile è reale»

Mentre raccolgo gli scritti per questo lavoro, leggo le frasi dell’avvincente Autoritratto, che con la loro verità mi colpiscono profondamente e chiariscono a me stesso le ragioni per le quali ho voluto costruire questo saggio, che restituisca a me, ancora prima che agli altri, figure e momenti che hanno costruito la mia esistenza, segnandola e arricchendola di senso.

Chi ha avuto la ventura di una lunga esistenza è portato, perciò stesso, a tentare bilanci, a guardare indietro, ripercorrere le tante fasi della propria vita, ritrovando così figure e momenti che l’hanno marcata in maniera più o meno intensa, comunque sempre in modo significativo.

Come è stato detto lucidamente da un veggente cieco: «Sono molte le persone che ho incontrato. Alcune hanno preso molto da me, altre no. Ma io ho preso da tutti loro e da ognuno di loro sono stato arricchito». Nessuno meglio di José Luis Borges ha espresso la prospettiva nella quale mi sono situato, nel comporre questa mia opera dedicata alle figure che ho avuto la fortuna di incontrare e che hanno in vario modo arricchito la mia vita intellettuale e la mia trama degli affetti, che mi hanno consentito non di sopravvivere, ma di vivere, costituendo il calore e l’essenza della mia esistenza.

In questo sguardo rivolto al passato sino ad oggi si sono presentificate diverse figure: persone a me care che mi hanno sostenuto o continuano a sostenermi con la generosità dei loro sentimenti, del loro amore. Questo lavoro si costituisce quindi per me anche come ineludibile sillabario degli affetti e come tale lo presento.

La memoria ha sempre avuto su di me un’influenza determinante; quando ho modo di esercitarla, la figura o il momento oggetto di essa emergono in maniera estremamente vivida, come se non fossero ormai passato ma si costituissero ancora una volta, come presente, con tutta la sua carica pregnante. In qualche maniera, non è come se fossero presenti, ma si ponessero realmente come presenti, restituendo il sapore e il calore del momento in cui vennero vissuti, che si costituiscono così come viventi nel momento stesso del ricordo.

Mentre preparavo questo articolo, ho incrociato altri libri autobiografici che presentano toni e scansioni radicalmente omogenee a quelle che sostanziano la mia opera. Si tratta di opere sicuramente migliori delle mie, ma che sento profondamente sorelle nella dimensione interiore, nel movimento dei pensieri e dei sentimenti. Così, forse, chi ha avuto la fortuna di raggiungere la fase senile avverte l’esigenza di ripercorrere i tratti salienti del suo itinerario e fissarli per sé e per gli altri, come occasione di momenti, eventi, figure, recuperandoli quali testimonianze di temperie culturali ormai trascorse. Penso per tutti alla splendida narrazione che ci ha fornito Edgar Morin parlando della sua Parigi, con il viluppo inestricabile di sentimenti, emozioni, “estasi storiche”, luoghi di partenze e di ineludibili ritorni: luoghi di una città che si costituisce per lui come patria culturale, “villaggio vivente nella memoria”, per utilizzare la suggestiva espressione demartiniana. È un lavoro contro “tutti i dogmatismi e settarismi”, sorretto sempre da quella intelligenza capace di critica e di autocritica, testimoniata, se pur ve ne fosse bisogno, dalla sua lucida “Autocritica” (pubblicata nel 1959 e in edizione italiana nel 1962 da Il Mulino).

E, appena l’anno scorso, dopo la sua suggestiva ricognizione personale degli affetti e dei luoghi di una Roma amata sin dalla metà degli Anni Sessanta, Elio Pecora, uno dei protagonisti della vita intellettuale romana di quegli anni e dei decenni successivi, nota, introducendo il suo bel Libro degli amici, «sono numerosi i noti e gli illustri chiamati in questo lavoro. È una parte del mondo nel quale mi sono mosso, inquieto e, a mio modo, anche innamorato. Dei tanti e dei pochi ho scritto quel che ho visto e compreso: il ritratto appartiene al ritrattista e questi, intanto che ritrae, caccia da sé le sostanze e le apparenze di cui s’è nutrito e in qualche misura se ne libera, tanto più nell’età avanzata, quando le proprie storie s’aggrumano prima di cancellarsi» (E. Pecora, Il libro degli amici, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017). Colpisce nelle parole del fine poeta la stoica malinconia con la quale si accenna all’età avanzata e al processo di cancellazione nel quale inevitabilmente si avviano le sue storie aggrumandosi.

Così come sto descrivendo il mio itinerario attraverso le figure incontrate, sembra che mi rifaccia a una sorta di galleria degli Amori, ma questa galleria, con preminente attenzione alle figure femminili, l’ho costituita nei miei libri di poesia, a prescindere dalla loro eventuale validità estetica. In Vaghe stelle dell’Orsa invece, si tratta non soltanto di una biografia sentimentale ma di una biografia intellettuale, anche se, certo, ogni incontro intellettuale è anche intriso di sentimenti e ogni scambio affettivo è, inestricabilmente, scambio di idee e di emozioni, di intuizioni e di passioni. È la vita, del resto, che, grumo inestricabile di conquiste intellettuali e di fuoco interiore, conoscenza che si autoalimenta come nell’Allegoria della scienza, di Giovanni Serodine, ricordata dallo stesso Giorgio Agamben, che, «dirige verso le proprie labbra il getto di latte che scaturisce dal seno destro. Si tratta cioè, di un’allegoria di quell’autonutrimento dell’anima di cui scrive Platone nella Settima lettera, quando ricorda agli amici di Dione che le cose di cui egli si occupa seriamente non possono essere dette come le altre, ma solo dopo un lungo parlarne e quasi viverci insieme, una luce schizzata da un fuoco, che “nutre ormai se stessa (auto heauto ede trephei)”».

In questa prospettiva, la luce della conoscenza «scaturisce sempre da fuori, ma giunge il momento in cui dentro e fuori coincidono, non possiamo più distinguerli. A questo punto, il fuoco cessa di consumarci, “nutre ormai se stesso”: ignis ardens non comburens, come Tiziano ha scritto in basso nell’Annunciazione di San Salvador – un’allegoria, questa volta, dell’atto di creazione». In ognuno degli incontri che delineo in questo lavoro, la mia personalità si è confrontata mutuando idee, intuizioni, sentimenti; volta a volta sono diventato in qualche maniera loro, identificandomi parzialmente, posto che noi siamo l’insieme delle persone che abbiamo incontrato, che abbiamo conosciuto, che abbiamo fantasmatizzato, che abbiamo amato, come, correlativamente, loro sono l’insieme delle persone incontrate, conosciute, amate, e quindi sono anche inevitabilmente noi stessi. È la dialettica degli sguardi che diventano fondanti, per cui è legittimo sostenere che noi siamo l’altro, e che l’altro è noi. Venne detto in altra epoca che “l’uomo è ciò che mangia”; in questo mio discorso l’uomo è chi ha incontrato/incontra.

E i pensieri immensi, e “i dolci sogni” che ispirarono la vista “di quel lontano mar”, di quei “monti azzurri” e “arcani mondi”, facendo presagire in maniera fallace, un’“arcana felicità” da cui viene mutuato il titolo di questo saggio ispirano all’autore di esso, nella convergenza e divergenza di tratti pur similari, una speranza di vita ulteriore, per se stesso e per le figure che via via evoca dando a esse, attraverso il ricordo, nuovo alimento e vita.

Chiara Valerio conclude il suo bel libro Spiaggia libera tutti (Laterza, Bari 2010), ricordando la sua amica Teresa e gli anni di assoluta ed esclusiva condivisione, per cui la saluta a quel punto del lavoro «per non correre più dietro ai fantasmi. A modo mio, con le parole scritte che fino a un certo punto mi hanno salvato da qualsiasi cosa. E ancora ci provano, nonostante me». La parola scritta salva, dunque. Ma la parola scritta, anche, per me dà la vita, a se stessi e agli altri; li dice, rendendoli come se fossero vivi e parlanti. Questo, lo ripeto ancora, il tèlos del mio peregrinare in Vaghe stelle dell’Orsa.