L'Albero e il Presepe l'incanto del Natale

img

«Andrea porta la nova/ca lu quattro e di Varvàra,/ca lu sei è di Nicola,/ca l’ottu è di Maria,/ca lu tridici è di Lucia,/ ca lu vintunu è Tommasu che canta,/ ca lu venticinqu è la Nascita Santa», o, in una versione più attenta ai valori gastronomici, «ca lu ventiquattru si riempi la pancia,/ca lu venticinqu è la Nascita Santa»: è un’antica filastrocca calabrese che costituisce una sorta di calendario prenatalizio.

La Vigilia si festeggia con un cenone, nel quale sono previste ritualmente 13 pietanze, compresa l’immancabile frutta secca (fichi, - anche infornati, ripieni di mandorle e noci – disposti in croce e coperti di cioccolato); così nel mio paese, San Costantino di Briatico, così in numerosi paesi del cosentino e in altre aree meridionali.

Il Natale, si sa, è la celebrazione della Famiglia, sacralizzata e nucleo fondante della società. I rituali che si dispiegano in questo spazio-tempo sono tesi a rafforzare ulteriormente l’identità familiare, cellula essenziale – si ritiene – per ogni consorzio civile.

Nella mia memoria sono scolpite le processioni che tutti i componenti della mia famiglia facevano attraverso le numerose stanze della mia vasta casa di San Costantino, nella quale il più piccolo portava in mano Gesù Bambino mentre gli altri intonavano il più noto «Tu scendi dalle stelle…» e la più antica «Fermarono i cieli la loro armonia,/cantando Maria,/ la ninna nanna a Gesù,/la ninna nanna a Gesù…» e portando in mano una candela accesa.

Si partiva dal presepe costruito in famiglia in maniera artigianale con il muschio che ricopriva le balze, sulle quali le pecorelle erano vegliate dal pastore appoggiato al suo bastone ricavato da un nodoso ramo di ulivo, per ritornare, dopo aver passato attraverso le stanze di tutta la casa a averle così sacralizzate, nello stesso luogo da cui la processione era partita e dove il più piccolo – di fatto neo-sacerdote di questo culto domestico – faceva baciare il Bambinello ai presenti e, dopo un’ultima preghiera, lo deponeva con devota cautela, nella Grotta.

Da quel momento iniziava il Tempo natalizio che si concludeva con la Candelora, il 2 febbraio, quando l’inverno «è fora». Con l’inesorabile scorrere degli anni il più piccolo nel nucleo familiare non fui più io e questo ruolo venne preso da mio figlio, Alfonso e, divenuto anch’egli adulto, il ruolo passò a mio nipote, figlio di mia sorella, Guglielmo, che lo assolve con trepida cura, sino a quando col volgersi del tempo lo passerà al più piccolo di casa.

Mi sto soffermando su questi particolari autobiografici per sottolineare quanto il Natale sia vissuto da me come tempo-spazio di una religione domestica, che dà sapore e calore ai miei giorni. Il presepe è per me, dunque, tratto essenziale del Natale e rappresenta la memoria del paese, inteso quale fulcro di ricordi e di affetti e sogno irrinunciabile di esso.

Così profondamente legato al presepe, ho nutrito per lungo tempo diffidenza per l’albero di Natale, che ritenevo omogeneo alla cultura dei paesi del Nord Europa e sostanzialmente estraneo alla nostra.

Tale diffidenza era in netta controtendenza con il sentire contemporaneo per il quale le case italiane si illuminavano sempre di più con le luci degli alberi di Natale, rami di alberi naturali o artificiali; in ogni caso riccamente addobbati di palle di vetro fosforescenti e di lampadine intermittenti, mentre alla loro base venivano deposti regali per adulti e piccini perché venissero aperti nel tripudio della festa.

A poco a poco tale diffidenza è svanita perché mi è apparso errato irrigidirmi in una tradizione assunta come blocco monolitico impermeabile al fluire del tempo e – mi sono domandato – a quale anno va ancorata la tradizione? E con quali criteri può essere fissata tale data?

Se la tradizione è, come io penso, acqua viva, sorgente inarrestabile di identità e memoria, è ovvio che in essa confluiscano via via tutti gli elementi inizialmente innovativi che entrano a far parte dell’universo simbolico della nostra società.

E allora, accanto al presepe, ben venga anche l’albero a dire le esigenze di festa e di armonia, che il tempo natalizio tenacemente effonde su tutti noi, «uomini di buona volontà», tesi a una pace che renda meno feroce il nostro tempo, vivificandolo con la speranza di un diverso, più umano futuro.

D’altronde, a una più attenta riflessione, ci possiamo rendere conto di quanto l’albero sia saldamente presente nella nostra realtà ambientale e nel nostro universo simbolico. Penso agli splendidi boschi della Sila e del maestoso Aspromonte; penso a come Leonida Repaci, nella sua notissima elegia sulla Calabria – dopo aver così cantato la sua regione: «quando fu il giorno della Calabria, Dio si trovò in pugno 15000 kl.² di argilla verde con riflessi viola.

Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese di due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un maschio vigore creativo il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. Si mise all'opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi» -, prosegua, quali elementi di incomparabile bellezza, memore degli stupendi alberi da frutto della Piana, «diede alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto […] a Palmi il fico, […] a Gioia l’olio, a Cirò il vino, a Rosarno l’arancio, a Nicotera il fico d’India, […], al Mesima la quercia, […], alle montagne il canto del pastore errante, […]», evocando così gli alberi più significativi degli incomparabili scenari calabresi.

A proposito degli ulivi si potrebbe percorrere, a questo punto, un itinerario attraverso le leggende e i simboli a esso collegate. Ercole, l’arca di Noè, la colomba con il ramoscello di ulivo, simbolo di pace, immortalata da Picasso, e così via.

Per gli Egizi l’olio era un dono degli dei, presso gli Ebrei era usato per «ungere» il loro Re. In Omero l’olio è descritto come elemento utile; in Calabria era presente nella cosmesi delle donne del popolo che spesso arricchivano i loro capelli ungendoli più volte con l’olio di ulivo; ancora oggi il valore terapeutico dell’olio è attestato ulteriormente dall’usanza, diffusa nelle diverse classi sociali, di protezione solare.

I Greci con la colonizzazione delle regioni del Sud d’Italia, portarono l’ulivo in queste terre, dove si svilupparono sempre più le tecniche di coltivazione e di estrazione dell’olio. I boschi e i luoghi ombrosi sono, nell’immaginario folklorico del Sud Italia, tra i luoghi deputati per l’apparizione dei defunti, come Mariano Meligrana e io abbiamo avuto modo di documentare ampiamente nel nostro Il ponte di San Giacomo, dedicato all’«ideologia popolare della morte».

Nella cultura tradizionale e in contesti extraurbani, un ceppo di albero, posto dinanzi alla soglia dell’abitazione di una ragazza che si vorrebbe chiedere in sposa, equivale a esplicita richiesta di fidanzamento.

L’indomani, quando il padre della ragazza apre l’uscio di casa, se porta dentro il ceppo, segnala così l’accettazione della richiesta; se intendesse rifiutarla lascerebbe il ceppo fuori e il pretendente dovrebbe rassegnarsi alla decisione indiscutibile del Capo della famiglia nella quale avrebbe voluto far parte.

È evidente come l’albero e una parte di esso sia il simbolo della vita, che tende a perpetuarsi nel tempo, creando nuova figliolanza e nuovo seme per il futuro. Simbolo della vita l’albero risulta centrale nelle processioni dell’albero nelle quali la sera precedente della festa gli uomini del paese, di cui viene esaltata la forza, segano un albero nei boschi circostanti, lo trascinano, con grande sforzo e con l’aiuto di animali, in paese, dove, l’indomani, giorno della Festa, viene eretto e addobbato come simbolo della vita che si rinnova, così nel Maggio di Accettura, in Basilicata, accuratamente descritto da Giovanni Battista Bronzini: così nella processione dell’albero che ogni anno si effettua a Saracena, in provincia di Cosenza, a cui ho avuto modo di assistere nei primi anni Ottanta.

Il rituale festivo si concludeva attorno all’albero incendiato, mentre si ballava in circolo, ballando, cantando e bevendo vino, rinnovando e rafforzando così l’identità di gruppo. Cifra di identità e occasione ludica sono gli innumerevoli alberi della cuccagna – a lungo studiati, tra gli altri, da Domenico Scafoglio –, eretti nei giorni di festa nelle piazze dei paesi che alcuni volenterosi, pur consapevoli che il tronco è stato unto e quindi reso ancor più scivoloso, tentano di scalare raggiungendo la sommità per impadronirsi degli agognati premi, mentre, il più delle volte, tali volenterosi rovinano a terra, tra le risate e gli sghignazzi degli astanti.

Albero come mezzo per ritrovare e rafforzare la propria identità, individuale e di gruppo, albero come mediazione con l’aldilà, con l’universo del Sacro, e perciò efficace trasmettitore di sacralità. Lo testimoniano sicuramente i diffusi culti arborei, sui quali si è sviluppata una ricca letteratura demoantropologica, per la quale mi limiterò a ricordare i numerosi studi a essi dedicati da Enzo Spera.

Sugli alberi, infatti, è apparsa numerose volte la Madonna ad avanzare richieste ai suoi devoti (l’edificazione di chiese a Lei dedicate; pentimenti e preghiere per il figlio sdegnato per i peccati degli umani, e così via). Penso alla Madonna della Quercia di Viterbo e a tanti altri culti sui quali non è qui il caso di soffermarsi.

Proprio per questa capacità fortemente evocativa dell’albero, l’ulivo è stato nei decenni trascorsi, assunto come simbolo di una formazione politica che ha riscosso il consenso della maggioranza degli elettori italiani: ho avuto l’onore di rappresentare tale formazione politica nella tornata elettorale del 1996, nella quale la rappresentavo per il Collegio uninominale Vibo Valentia-Soverato; nel corso di una intensa campagna elettorale insistetti più volte nei comizi nei diversi paesi che amavano tale forma di «spettacolo», sulle caratteristiche dell’ulivo, che affondava le sue radici nella profondità della terra (ingresso ai sotterranei del sottosuolo che il protagonista di tanti racconti popolari trovando splendenti gioielli e smisurate ricchezze), si elevasse sulla terra in tutto il suo vigore e nell’ampiezza delle sue articolazioni (che simboleggiavano la pluralità delle culture politiche che includeva in maniera, si sperava, tendenzialmente armonica) e protendeva le sue chiome verso l’alto, come desiderio e simbolo di trascendenza rispetto alla realtà quotidiana che intendeva trasformare secondo progetto.

Discorsi siffatti furono, verosimilmente, persuasivi e venni eletto con oltre 54.000 voti nel Senato della Repubblica nel quale rappresentai il collegio per tutta la XIII legislatura (1996-2001). Il simbolo dell’albero continua a significare contemporaneamente la pluralità e la diversità nella concordia; in questi anni la comunità di San Patrignano per i ragazzi in difficoltà l’ha assunto come proprio emblema a significare la tensione al reciproco aiuto in un grande, reciproco abbraccio.

Conclusivamente, sia l’albero che il presepe ci trasmettono l’incanto del Natale, la nostalgia di una vita tramata da sentimenti di bontà e di volontà di pace, quale è stata promessa nel Divino Messaggio, già richiamato, agli uomini di buona volontà.