Il sangue nei rituali pasquali tradizionali del sud d'Italia

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Nei rituali pasquali la morte del Cristo viene commemorata perché con la Resurrezione la morte venga sconfitta.

"Viva la morte!”, proclamavano con necrofila esultanza i nazifascisti in un’epoca per fortuna trascorsa; anche i numerosi riti tradizionali posti in essere nel periodo pasquale nei paesi del Sud d’Italia possono essere letti come un gigantesco inno alla morte.

Vi è però una radicale differenza: nella cupa evocazione nazifascista la morte era esaltata in nome della morte stessa, della necessità e della tragica attrazione della violenza che questo stesso richiamo poteva produrre; nei rituali pasquali la morte del Cristo viene commemorata perché attraverso tale presentificazione la morte sia sconfitta e riemerga la vita; il Venerdì Santo, giornata di Passione e morte, prelude alla Domenica di Pasqua, spazio del rinnovamento del tempo e di riaffermazione della vita vittoriosa.

Ho sperimentato direttamente tale realtà nella mia pluridecennale esperienza di ricerca nei paesi del Sud d’Italia, con puntuali verifiche in altri Paesi, quali la Spagna con la sfilata dei giganteschi carri funebri della Settimana Santa di Valladolid e ho presentato buona parte dei risultati critici di tale ricerca nel volume, scritto con la decisiva collaborazione di Mariano Meligrana, Il ponte di San Giacomo.

L’ideologia della morte nella società contadina del Sud (ultima ed. Palermo, Sellerio, 1996), al quale mi permetto di rinviare quanti intendessero approfondire tale problematica. Il Giovedì Santo lo scuotimento della troccola, tavoletta di legno su cui sono installate delle maniglie in metallo, segnala le diverse funzioni religiose, sostituendo così le campane rese silenziose in segno di lutto per la morte del Cristo.

Si introduce così il tempo del lutto che avrà la sua apoteosi nella processione del Venerdì Santo con la statua del corpo del Cristo sanguinante che percorre le vie del paese, accompagnato dai tradizionali lamenti funebri.

Tale processione raggiunge a volte il Calvario, simbolica tomba del Cristo dal quale si ritorna per ricollocare la statua nella chiesa, sua abituale dimora. La processione ha svolto il suo compito di stendere sullo spazio del paese una gigantesca rete simbolica atta a proteggerlo da qualsiasi male, realistico o simbolico.

Il sangue, lo spargimento di esso, sono tra i più saldi canali di comunicazione predisposti perché i morti si affaccino sulla scena dei viventi, come nell’episodio omerico di Patroclo. Se il sangue è memoria (l’evangelico “fate questo in memoria di me”), il ricordo del morto costituisce di fatto sangue offerto perché egli viva nella pietà dei superstiti.

Vita e morte, mondo dei vivi e mondo dei morti resterebbero realtà irrelate se non intervenisse la memoria – con la sua costitutiva equivalenza col sangue e con la sua sacralizzante – a consentire relazioni, a ripristinare i rapporti drammaticamente interrotti, a restituire agli affetti capacità di discorso.

Nel vasto quadro del sangue quale garante di vita, ricevono senso atti rituali presenti nel folklore del Sud e che contribuiscono a sostanziare quella teatralizzazione del sangue, entro la quale si dispiega buona parte della vita simbolica delle comunità tradizionali.

Non possono essere taciuti i rituali di flagellazione di numerosi centri meridionali quali la flagellazione nei rituali settennali di Guardia Sanframondi, nel Sannio, eseguiti per ottenere la pioggia, essenziale alla produzione vinicola che sostiene l’economia dell’intero territorio, o la processione dei battenti, che ogni sabato santo percorre le vie di Nocera Terinese, in Calabria, nel corso della quale i battenti si percuotono a sangue le gambe perché tutto il lametìno, zona di coltivazione della vite, ancora oggi in atto, sia protetto e garantito nel suo migliore possibile prodotto.

Dall’analisi della vastissima mole di materiale demo-etnologico acquisito, ho ricavato una sorta di grammatica del sangue, con una serie di principi entro i quali essa si sviluppa. Tra questi, quello secondo il quale il sangue, in quanto elemento atto a dar vita, è connesso alla morte.

Esso può pertanto essere segnalatore di morte. Quale elemento fondante la vita, simbolo di essa, il sangue si rapporta alla morte, polo dialettico della vita, suo sottinteso e ombra. Vita e morte costituiscono un binomio inscindibile; il primo termine può affermarsi soltanto se viene superato – circoscritto, controllato, dominato – il secondo.

Ma principio di vita e principio di morte non sono paritetici; alla base del primo c’è l’essere, alla base del secondo, una negatività; del primo si predica una presenza, del secondo un’assenza. In questa prospettiva si può legittimamente affermare che il principio della morte può essere richiamato solo perché dalla negazione di essa, la vita viene affermata e potenziata.

Il sangue può assumere stabilmente la funzione di segnalatore di morte solo in un orizzonte culturale che tende a inverarsi nella vita e per la vita. Il sacrificio di Cristo, continuamente rinnovatosi nel rito di presentificazione della Messa, rifonda la vita dell’uomo e garantisce nel tempo la sua salvezza.

La storia umana, nella società occidentale, è attraversata da questo filo rosso che riprende altri fili di sangue, presenti nella storia culturale, intrecciandosi in un ordito entro il quale le vicende umane possono ricomporsi.

In questo ordito, il sangue di Cristo; quello dei martiri e dei santi; dei loro devoti che si flagellano; dei veggenti e mistici popolari che sillabano sul loro corpo un discorso di sofferenza e di riscatto; di quanti usano il proprio sangue per dare alle loro azioni potenza magica; il sangue sparso in occasioni e momenti differenziatissimi, che dice storie di sofferenze, di espiazioni e ansia di salvezza; il sangue che segna il tempo contadino, denso di fatica e di contraddizioni, di costrizioni e di angosce, concludono il loro iter tormentato, placandosi e facendo in modo che si plachi l’umano tumultuare.