Lo specchio di narciso

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Il presente in cui siamo chiamati a vivere suscita timore. Alle soglie del nuovo millennio, la specie umana pare avere smarrito irrimediabilmente se stessa. Abitiamo una contemporaneità scossa da violenze inaudite. Perennemente interconnessa ma afflitta da una solitudine cronica. La violenza permea a vari livelli le nostre vite. Governa pensieri ed azioni. Regala al quotidiano un pericoloso sillabario di atteggiamenti e di lemmi brutali. Permette che acquistino da capo vigore le ideologie dell’intolleranza, dell’esclusione e dell’emarginazione che avevano avvelenato il pozzo del mondo a ridosso delle due Grandi guerre. E seppure, dopo i terribili sconvolgimenti dell’ultimo conflitto mondiale ci piace pensare che la pace sia una delle grandi conquiste del tempo in cui viviamo, la verità è un’altra. Attualmente vi sono in corso scontri in ben 67 Stati del mondo, alcuni dei quali – l’esempio più evidente è quello siriano – è assolutamente inappropriato definire “conflitti territoriali”. Si tratta di guerre asimmetriche, che hanno ricadute terribili per milioni di persone. I social network hanno ridotto le distanze tra gli individui. Eppure non siamo mai stati tanto soli quanto adesso che una rete invisibile avvolge l’intero pianeta, consentendoci di essere in comunicazione perpetua con gli altri; di “connetterci” immediatamente e in ogni istante. Il cortile di Facebook è diventato il luogo d’incontro nel quale, più di ogni altro, amiamo riunirci, per discettare di inezie o confrontarci sui massimi sistemi. I dialoghi si riducono ad un algido e sgrammaticato messaggio su WhatsApp; alla didascalia che accompagna un selfie; nei casi estremi, diventano uno sterile parlarsi addosso. I concetti di amicizia, amore, sesso acquisiscono, nel frattempo, nuove valenze. Capita con una frequenza preoccupante che un avatar sostituisca la persona reale. Non vi è nulla di sbagliato nel desiderio di condividere esperienze, informazioni, emozioni. Tuttavia, è necessario interrogarsi sulle conseguenze di un uso sconsiderato dei social. I nostri ragazzi e, assieme a loro sempre più adulti, trascorrono ormai la quasi totalità delle ore di veglia dinanzi allo schermo di uno smartphone o di un computer. Sfiorare un touch screen o una tastiera e digitarvi o pronunciare una parola, una frase, un pensiero, sono diventati ormai gesti irrinunciabili. Il problema più grande che ci troviamo ad affrontare, però, è un altro.

Il mondo in cui esistiamo è consacrato al denaro; l’umanità stessa ha assunto lo statuto di una merce. Leggere il presente significa prendere atto che la brama di possesso condiziona ormai ogni istante del nostro vivere. Rendersi conto che la struttura economico-sociale che abbiamo edificato è fortemente squilibrata e il modello di sviluppo che proponiamo è insostenibile. Com’è stato possibile tutto questo? quali pericoli ci attendono?

Probabilmente, non vi è mai stata tanta abbondanza di cibo, tanto benessere e tanta opulenza quanto in questo preciso momento storico. Eppure, la ricchezza che viene ostentata è solo apparente: è appannaggio di una casta piccolissima e potentissima di privilegiati, a cui tutto è dovuto e consentito. Stiamo depredando e distruggendo il nostro pianeta, la casa comune che ci accoglie, nutre, protegge; l’heimat che assicura la nostra stessa sopravvivenza. Soprattutto, ogni cosa pare cospirare affinché vacilli, sino a sfaldarsi, come legno aggredito dalle tarme, il sentimento di fraternità che ci riconsegna a noi stessi: il legame atavico, necessario, insopprimibile che ci rende tutti quanti sodali, membri di un’unica, grande, famiglia umana. È davvero possibile che siano gli intellettuali, figure decisamente marginali della contemporaneità liquida, a indicare vie d’uscite dal labirinto in cui ci siamo persi?

Tutte le volte in cui si preoccupa di assolvere la sua più autentica missione, l’intellettuale torna, difatti, ad essere portatore sano di una lucida eresia e sa essere custode di un’altra idea di mondo; indicare dei percorsi alternativi. Infine va aggiunta un’altra soluzione al complesso problema: il ruolo centrale che potrà assolvere la scuola nell’opporre un argine ai non-valori devastanti espressi dalla civiltà dei consumi. Il risultato si otterrà purché la scuola riesca a fronteggiare la crisi e l’indebolimento del discorso educativo e a gestire «un passaggio generazionale un po’ diverso da quello consueto»: l’istituzione scolastica potrà tornare ad essere uno spazio protetto e tutelato, libero da condizionamenti di sorta e dalle seduzioni del Mercato, all’interno del quale i nostri ragazzi potranno portare a compimento il loro lento percorso di maturazione.