L’abbigliamento popolare nel cicolano

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Introduzione. L’abbigliamento popolare è una delle più importanti espressioni identitarie. Per studiarne lo sviluppo e le diverse tipologie nel Cicolano, regione geografica omogenea compresa a suo tempo nell’Abruzzo del Regno di Napoli ed oggi appartenente alla regione Lazio, dal XVIII secolo fino ai nostri giorni è stato necessario confrontare fonti bibliografiche ed archivistiche di diverso genere: dalle immagini dei catasti pubblici alle liste delle doti matrimoniali, dalle relazioni murattiane alle fotografie d’epoca che associazioni e studiosi del territorio hanno raccolto negli ultimi anni. L’esame di questo materiale etnografico rinvenuto attraverso un lungo e preliminare lavoro di ricerca, ha permesso di individuare foggia, manifatture locali, colori e tessuti dell’abito popolare e di verificare come i diversi elementi si siano modificati nel corso del tempo. Occorre tener presente che l’abito popolare del Cicolano non ha avuto la fortuna di essere stato oggetto di attenzione da parte delle svariate incisioni dedicate ai costumi regionali realizzate tra la fine Settecento e l’inizio Ottocento. Oggi però la totale assenza di immagini riconducibili a questa iconografia classica, peraltro già abbondantemente scandagliata da più autori, può rappresentare un vantaggio, in quanto l’analisi con prospettiva storica delle fonti documentarie sopraindicate rappresenta un antidoto al rischio di stereotipia cui spesso s’incorre in questi casi. Inoltre si conclude mostrando con quali modalità nell’ultimo periodo diversi gruppi locali si rapportino con l’abito popolare per raccontare la propria identità.

I catasti del Cicolano. Cinque catasti pubblici del Cicolano redatti da due sacerdoti della famiglia Sallusti di Sambuco dal 1720 al 1793 offrono le prime e bellissime testimonianze iconografiche sul tema. Il loro valore documentario è alto perché, in primo luogo, essi precedono cronologicamente il boom che conobbe a Roma e Napoli il genere pittorico riguardante il costume popolare e, in secondo luogo, perché gli autori appartengono alla società stessa che descrivono e dunque le loro immagini non sono fantasiose o di maniera ma collocabili con precisione nel tempo e nello spazio. Pertanto risultano fortemente affidabili, scevre di una certa raffigurazione edulcorata del mondo rurale, tipica delle citate stampe nazionali e locali. Il punto d’osservazione dall’interno è una garanzia indiretta di autenticità per le immagini dei Sallusti. In esse si possono ammirare le fogge settecentesche dei copricapi e degli abiti sia maschili che femminili. Per gli uomini sono ben raffigurati le diverse tipologie di cappello, la giubba a falde, i pantaloni, le calze, le scarpe ed anche i mantelli (a rota). Per le donne, invece, ecco un copricapo elegante, una veste tutta di un pezzo e un grembiule, sempre bianco. I catasti ci tramandano anche i colori di quegli abiti: prevalgono il rosso, l’azzurro ed il turchino, il marrone chiaro, il verde, il nero.

Le statistiche murattiane. Tali colori trovano conferma nelle statistiche murattiane del Regno di Napoli d’inizio Ottocento dove si parla per il Cicolano dell’uso delle erbe tintorie: il rosso si otteneva lavorando le radici della robbia, l’azzurro e il turchino grazie alle erbe del guado e della guaderella, il marrone attraverso il legno di campeggio. L’arte tintoria era dunque notevolmente diffusa ed esercitata da artigiani locali. Altri artigiani erano poi i numerosi sarti dediti alla confezione degli abiti. Nei catasti redatti intorno al 1811 si rinvengono 1 cappelliere e 7 sarti per i circa 11.000 abitanti del Cicolano dell’epoca. Tutte le donne vedove sono invariabilmente definite come filatrici. Le statistiche parlano anche di una grande produzione territoriale di lana e canapa.

L’apprezzo della dote. Un’altra preziosa fonte documentaria per l’abbigliamento tradizionale sono gli apprezzi, ossia le liste dei capi componenti il corredo della dote femminile. Essi documentano con certezza l’estrema diffusione nel Cicolano di arti casalinghe come la tessitura con il telaio e il ricamo a mano, l’uso, come nel resto d’Italia, di speciali tessuti come la ‘rassa’, la ‘saia’, la ‘cortina’, il ‘sensile’, la ‘tela cavallina’, il ‘camellotto’, il ‘drechetto’ e la distinzione netta tra capi di vestiario da impiegare nei giorni ordinari da quelli da impiegare nei giorni di festa. Un apprezzo del 1726 esplicita poi i colori, rosso e turchino, di due vesti da donna. Inoltre, aiutano a ricostruire l’evoluzione dell’abbigliamento femminile nel corso dei secoli: infatti, la veste lunga ad un pezzo, associata a dei copricapi, che compare negli ‘apprezzi’ e nei catasti del Settecento viene sostituita già nell’Ottocento da abiti a due pezzi con camice, busti, corpetti e gonnelle. La moda di indossare il grembiule, (sinale), pare invece non tramontare mai.

Le fotografie d’epoca. In epoca contemporanea, le fotografie d’epoca costituiscono naturalmente un’altra fonte straordinaria. Emerge così la bella tipologia di quello femminile, con il ricco fazzoletto sulla testa (quadruccio) che poteva avere diverse forme ma la prevalente è quella a tegola, con una mantellina pesante oppure leggera e fine, a coprire le spalle (spalleru), con un busto a forma per lo più di vassoio per valorizzare il personale, con collane e orecchini d’oro o corallo come accessori per impreziosire l’aspetto estetico. Le camicie (corpette), spesso colorate, presentavano disegni con piccole palline bianche, oppure forme geometriche a quadri o anche sottili righe verticali, le gonne erano ampie, con eleganti pieghe e a volte con il particolare di strisce nere alla base, i grembiuli sono quasi sempre presenti e possono essere bianchi, per i giorni di festa, o scuri per i giorni di lavoro. In caso di assenza del copricapo, l’acconciatura dei capelli era raccolta e con una perfetta linea divisoria al centro della testa. Comparando le fotografie più antiche con quelle del secondo dopoguerra, si può notare come i primi elementi ad essere abbandonati siano stati il busto, il fazzoletto ricercato e la gonna con pieghe, mentre siano continuati ad essere usati la mantellina, il grembiule, il fazzoletto dei giorni di lavoro e l’ordinata acconciatura.

Tramite le fotografie si ricostruisce anche l’abbigliamento maschile. Appaiono quindi giacche, diverse forme di cappelli, camice invariabilmente bianche e con colletto che oggi si direbbe ‘alla coreana’, gilet scuri (vestitella), pantaloni che arrivano sotto le ginocchia, chiamati ‘alla zuarra’, lunghe calze pesanti e scarpe chiodate. Non si dispone per ora di fotografie con gli antichi mantelli che sembrano essere il primo capo maschile ad essere scomparso, anche se la funzione sopravvive nell’uso di molti di portare le giacchette ‘ammantellate’ sulle spalle. Nel secondo dopoguerra presto scompaiono anche camicie strette al collo, gilet e pantaloni fino al polpaccio (alla zuarra).

Resiste più a lungo, ma sta tramontando nelle ultime generazioni, l’uso del cappello. Come sempre, l’uomo è meno conservativo della donna.

Identità percepite e identità esibite e le persistenze. Nel secolo scorso, il vestiario tradizionale è andato man mano scomparendo e ne rimangono soltanto remote persistenze. In particolare, molte donne del Cicolano amano indossare ancora grembiuli, fazzoletti e mantelline e pettinare in maniera raccolta i capelli. Il passato persiste così nel presente. Nelle circostanze, però, in cui le comunità del Cicolano hanno voluto manifestare la propria identità, il fenomeno della persistenza identitaria è in qualche modo riapparso. Per esempio, a partire dal 2000 la Compagnia degli Zanni di Pescorocchiano ha scelto d’ispirare il suo costume di scena, alle fogge e ai colori dei catasti. Contemporaneamente, un gruppo denominato i Briganti di Cartore opera da tempo per far rivivere le gesta dei briganti del Cicolano e se da un lato s’ispira all’iconografia classica sul tema d’inizio Ottocento che ne idealizza il personaggio, dall’altra ha riproposto il tipico mantello scomparso da oltre cinquant’anni. La figura del brigante diventa così una specie di emblema della Valle del Salto. Ancora, nella manifestazione Panorama e Gusto la Gergenti Onlus ha voluto vestire alcuni figuranti in costume e in anni recenti il Comitato Promozionale Offeio si è diretto anch’esso verso forme di vestiario legate al passato.

Conclusione. Opere figurative, documenti archivistici, relazioni e cronache, fotografie e memoria orale sono fonti di grande importanza se considerate insieme e nel loro complesso. Lo studio di tale materiale documentario con una dimensione storica ha permesso di superare uno sterile descrittivismo e di delineare quali fossero i capi d’abbigliamento in uso nel Cicolano, verificandone l’evoluzione dal XVIII secolo ad oggi. Per gli uomini si è passati dalle vesti tinte del Settecento, alle giacche, i gilet e le camicie bianche di fine Ottocento e, in seguito, al sostanziale taglio con le fogge tradizionali. Per le donne, invece, si osserva il passaggio da un più antico abito ad un pezzo, ad uno più composito in uso tra XIX e XX secolo e vi è una buona linea di continuità che collega, ad esempio, i grembiuli bianchi dei disegni dei catasti e gli ‘spalleri’ presenti nelle foto con i ‘sinali’ neri e le piccole mantelline usate tuttora da molte anziane della Valle del Salto. Prima gli uomini e poi le donne, alla lunga, abbandonano i colori e optano viceversa per capi monocromatici. Si è dimostrato come nella realtà si lasciasse un certo margine di spazio alle interpretazioni individuali dell’abito popolare che non era affatto unico e stereotipato. È emerso con chiarezza come nel secondo dopoguerra l’abbigliamento popolare sia andato in crisi e quali siano le possibili persistenze odierne dello stesso.

La metodologia utilizzata potrebbe essere adoperata per vagliare ulteriormente il sistema vestimentario locale, sottolineando ad esempio le significatività dei particolari, facendo venire alla luce i diversi tipi di abito indossati in circostanze differenti della vita come ad esempio gli abiti speciali da lavoro o da cerimonia, oppure approfondendo quanto la dialettica città-montagna, l’inurbamento e l’immigrazione abbiano pesato sul progressivo disuso nel corso del Novecento dell’abito popolare. Infine, le tipologie con le quali i gruppi organizzati del Cicolano scelgono oggi per rappresentarsi all’esterno è un importante segno di come si ‘percepisce’ e/o si ‘esibisce’ la propria storia. In tal senso è parso spontaneo dirigersi verso la vita contadina e pastorale e le gesta dei briganti. E non a caso il mondo agro-pastorale e i briganti sono alcuni dei tratti specifici più radicati del Cicolano. Il ricorso all’abbigliamento popolare diventa così oggi, nel 2018, un’affermazione della propria identità.